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Gigi Meroni – La Farfalla Granata

C’era un tempo in cui il Calcio poteva vantare un “7” eccelso, un giocatore geno e sregolatezza, che –con il suo Lifestyle- andava contro la morale comune e non solo. Ma poco importava: era un genio con il pallone, una persona adorabile, con un cuore grande e una sensibilità artistica elevatissima.

Il suo nome era Luigi “Gigi” Meroni, la “Farfalla Granata”

 

Dal Cortile alla Serie A

Luigi nasce a Como il 24 febbraio del 1943, in piena II Guerra Mondiale. Comincia sin d piccolo ad appassionarsi al pallone. I primi calci li tira giocando in un cortile di 60 metri quadri, per poi passare – come tanti prima e dopo di lui- al campetto dell’Oratorio, nella fattispecie quello di San Bartolomeo, nella sua città natale. Sempre Como lo vedrà esordire nell’omonima squadra, settore giovanili.

Il suo talento è indiscusso e presto esordisce nella prima squadra. Dopo un match contro il Genoa, i talent scout rossoblù restano così affascinati dalle sue doti da tesserarlo. Così Gigi si trasferisce nella città della Lanterna.

Il suo talento non è solo calcistico: ha una spiccata vena artistica, tant’è che – prima di diventare professionista – lavora come disegnatore di cravatte di seta, un mestiere che denota capacità, estro e talento.

Lavoro che Luigi cerca appena ha la possibilità. È orfano di padre dalla tenera età di 2 anni e sua madre Rosa, tessitrice, influenza la manualità e la creatività di Gigi, uno dei suoi tre figli.

Tornando alla sua carriera calcistica, con la maglia del Grifone trascina la squadra, guidata da Benjamin Santos, all’ottavo posto e alla conquista della seconda Coppa della Alpi (competizione calcistica per club italiani, svizzeri, francesi e tedeschi).

Nonostante la mobilitazione popolare, i tifosi genoani in piazza, nell’estate del 1964 Gigi fece le valigie salutò la Lanterna e andò alla corte di granata di Torino, all’ombra della Mole.

Erano gli anni della “Beatlemania”: i quattro talentuosi musicisti di Liverpool stavano conquistando il mondo, Italia compresa. Sarà stato l’amore per la musica, per il taglio di capelli alla Beatles (da “capellone”), sarà quel che volete, ma Gigi fu ribattezzato il “Beatle italiano”.

Aveva una personalità, come già detto, spiccatamente dedita all’arte e all’anticonformismo. Fosse nato vent’anni dopo, non avrebbe –probabilmente- suscitato lo scalpore che fece all’epoca.

Vi faccio un esempio: adorava portare in giro, per le strade dell’ex capitale sabauda, il suo animale domestico a passeggio. Nessun problema di fondo, se non si fosse trattato di una gallina.

Molte cose “Disturbavano” del suo essere: i capelli lunghi, la barba incolta, i calzettoni abbassati. Parliamo di un’Italia pre -68, in cui l’immagine, la facciata e il bon ton erano sacri. Se poi aggiungete il fatto che convivesse con Cristiana Uderstadt, figlia di giostra, ancora formalmente sposata con un regista romano, sebbene in attesa di annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota (in Italia non era stato ancora introdotto il divorzio), il gioco è fatto.

Torniamo al campo di gioco e non ai rotocalchi, è meglio.

Il nostro Gigi indossò la maglia numero 7 dei granata, numero che rimase indelebilmente legato alla sua figura. Ben presto, per via dei suoi movimenti improvvisi e leggeri, venne soprannominato “Farfalla”. Per via del suo stile “non convenzionale”, ricevette anche il soprannome di “Beatnik del Gol” (Che belli i nomignoli di quegli anni!). AL Toro formò una coppia d’attacco tremenda con Nestor Combin, argentino naturalizzato francese arrivato al Torino dopo aver indossato la maglia dei “cugini” bianconeri.

Già, la Juventus. In questa storia non poteva mancare la “Vecchia Signora”. Alla fine del campionato, del primo in granata, alcune voci insistenti parlavano di un passaggio da una sponda (calcistica) all’altra di Torino per la “Farfalla”. Si parlava di 750 milioni, una cifra altissima per gli standard. I tifosi del Toro, come quelli del Genoa poco tempo prima, scesero in piazza per evitare la cessione di Gigi. Si scatenò una specie “insurrezione” popolare tanto sentita che il Patron dei Granata, Orfeo Pianelli, decise di interrompere la trattativa.

Nel frattempo, Gigi, aveva avuto la possibilità di indossare la maglia della Nazionale ed era diventato uno dei 23 scelti da Ferruccio Valcareggi per i Mondiali Inglesi. Come andarono a finire quei Campionati per l’Italia lo sappiamo. Evidentemente, la Corea è una delle “bestie nere” degli Azzurri (il Destino riproporrà uno schiaffone simile, se non peggiore, nel 2002. Grazie, Byron Moreno.) e l’Italia esce clamorosamente fuori nella fase a gironi.

Per Gigi la Nazionale terminerà con quel Mondiale. A breve, destino crudele, anche la sua avventura con la vita volgerà alla fine.

 

Una domenica maledetta

Era il 15 ottobre del 1967. La partita tra Torino e Sampdoria era terminata da poco tempo, con la vittoria dei granata per 4-2. Gigi sta rientrando a casa, in compagnia del suo compagno di squadra e amico Fabrizio Poletti. Accortosi di aver dimenticato le chiavi, si reca al vicino Bar Zambon per chiamare Cristina, la sua campagna, ospite a casa di amici. Una volta avvertita, decide di attraversare nuovamente Corso Re Umberto assieme a Poletti. Percorrono la prima parte della carreggiata e si fermano a metà, attendendo il momento buono per terminare l’attraversamento. Arriva un’automobile e Gigi, per evitarla, fa un fatale passo indietro. Sia Poletti che Gigi vengono investiti da una Fiat 124 Coupé. Il compagno di squadra viene colpito di striscio mentre, Gigi, preso in pieno alla gamba sinistra, viene sbalzato in aria e cade nell’altra corsia. In quel momento sopraggiunge un’Alfa Appia che lo investe, trascinandolo per poltre 50 metri. Viene portato all’ospedale da un passante (all’epoca, le ambulanze e la velocità nel soccorso non erano quelle di oggi). Le condizioni appaiono da subito disperate: bacino fratturato, gambe idem e grave trauma cranico. Dopo poche ore di agonia, nonostante l’intervento dei medici, la “Farfalla” smette di battere le ali. Erano le 22:40.

 

Ad investire per primo –incolpevolmente- Gigi con la 124 è stato Attilio Romero, 19enne di buona famiglia e sfegatato tifoso del Torino. Sarà lui a presentarsi spontaneamente alla Polizia per denunciare l’incidente. Abitava –casualità- a soli 13 numeri civici di distanza da casa Meroni. Dopo quasi 30 anni Romero, nel frattempo divenuto nel frattempo personaggio di spicco della FIAT (era portavoce personale dell’Avvocato Gianni Agnelli), diventerà l’ultimo presidente del Torino prima del fallimento e della successiva era Cairo.

I funerali si svolsero alcuni giorni dopo, fermando di fatto la città. Dal Carcere di Torino “Le Nuove”, molti detenuti faranno colletta per spedire delle corone di fiori. La Diocesi di Torino non vuole celebrare funerali religiosi. Troppo difficile, Gigi, che convive con una non divorziata. Ci penserà il cappellano del Toro, Don Ferraudo, a celebrare le esequie, contro il volere della Diocesi. In certi casi – ma è un’opinione personale- ci si dimentica davvero il messaggio primigenio della Religione.

Sette giorni esatti dopo la morte, a Torino si gioca il Derby della Mole. Entrambe le tifoserie, in religioso silenzio, assistono alla partita mentre da un elicottero piovono fiori destinati alla fascia sinistra, la fascia di Gigi.

Il grande amico e compagno di reparto, Nestor Combin, sta male, ha la febbre. Se ne infischia dell’influenza, insiste per giocare, convince il Mister. Il risultato ripagherà quella scelta. Il Derby terminerà 4-0 per il Toro: Combin segnerà una tripletta tra le lacrime mentre il 4° goal lo firmerà il “nuovo” numero 7, Alberto Carelli.

Se pensate che Gigi sia stato lasciato in pace –almeno da morto- purtroppo vi sbagliate: questa storia a un epilogo tragico. A fine dicembre del 1971, Gianni Viti, squilibrato 34enne di Oleggio (Novara), profana la tomba di Meroni, apre la bara e asporta il fegato del giocatore. Dopo alcuni giorni consegnerà il suo macabro trofeo alla Polizia, spiegando di non esser mai riuscito a superare la scomparsa per la morte di Gigi. Fu rinchiuso in un manicomio.

 

Era talento e creatività, anticonvenzionale in un’Italia non ancora pronta, era fantasia e scatto.

Un peccato che la Farfalla abbia smesso di battere le ali (e far sognare i tifosi) troppo presto, ad appena 24 anni.

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